Articolo Fismic su Italia Oggi
Roma, 07 febbraio. Salario minimo. Una regola in vigore in quasi tutti i paesi più avanzati, con evoluti sistemi di relazioni industriali. Una funzione primaria che fissa un livello retributivo minimo al di sotto del quale non si può andare e che rende qualsiasi retribuzione al di sotto di quella cifra illegale e dare valenza nulla allo stesso contratto individuale sottoscritto.
Garanzia che può essere universale o settoriale. Si dividono le strade che portano a una garanzia della retribuzione minima garantita, presente in tutti i ventotto paesi Europei, in modi diversi. A prevalere è il primo regime, universale, in ben ventidue paesi, quello che utilizza la Legge. Il secondo, che vede al suo interno l’Italia, utilizza il contratto collettivo. Ma anche nel Bel Paese, viene più volte rilanciata la proposta di introdurre un salario minimo legale, che riesca a combattere anche alcuni “contratti-pirata” in circolazione. A tale proposta, Matteo Renzi, si mostra molto propenso parlando un salario minimo legale che vada tra i nove e i dieci euro.
Il ricorso al salario minimo riguarda maggiormente i Paesi che si trovano di fronte a una situazione contrattualistica nazionale limitata o laddove il sindacato è poco influente o poco rappresentativo, perciò si opta per la via legale. In Italia, invece, la contrattazione copre il 70% dei lavoratori.
Se analizziamo il quadro europeo, ci troviamo dinanzi a grandi cifre quando approdiamo al SML più alto, si parte infatti da un minimo di 235 euro mensili della Bulgaria a un massimo di 1999 euro del Lussemburgo. E a varcare la soglia dei mille euro, ci sono anche Regno Unito, Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Irlanda. Una parentesi si può aprire sulla Germania, Paese che sino al 2015 non ha avuto un SML, né individuato dalla legge né dalla contrattazione collettiva. Fatto, questo, cancellato nel 2015 con l’istituzione di un salario orario minimo (di 8,5 euro).
Ma perché l’Italia, (insieme a Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia), non si unisce al gruppo sopracitato? Innanzitutto per l’opposizione pregiudiziale frapposta all’individuazione di esso da parte della triplice sindacale che intende mantenere la propria posizione egemonica attraverso la definizione di CCNL sempre meno applicati nella realtà. Infatti nel recente accordo Confindustria CGIL CISL UIL si legge addirittura di definire i minimi retributivi di ogni contratto nazionale come una sorta di salario minimo da dovere applicare a tutti i lavoratori impiegati in quel determinato settore merceologico come salario minimo individuando perfino un acronimo nuovo (TEM, cioè Trattamento Economico Minimo). Tale definizione sarebbe un disastro per la nostra economia laddove venisse sul serio preso in considerazione dalla giurisprudenza e dal legislatore perché porterebbe il salario minimo a circa a oltre 12 euro orari, contro i 7,5 dollari stabiliti negli USA e gli 8,5 euro individuati dal legislatore in Germania. Come se la nostra economia fosse più solida di quella statunitense o di quella tedesca e fosse in grado di sopportare livelli di salario minimo stabiliti per legge più alti di quelli di quei Paesi. Indubbiamente scegliere una strada del genere porterebbe esclusivamente a fare aggravare la piaga del lavoro nero e quella dell’elusione e dell’evasione contributiva e fiscale, mentre invece la definizione del salario minimo stabilito per legge dovrebbe avere l’intento opposto, cioè a dire dell’emersione dall’economia sommersa di una parte importante della produzione del PIL che oggi viene occultata attraverso l’evasione totale o parziale.
Quindi il salario minimo per legge dovrebbe essere indirizzata esclusivamente all’area sempre crescente di lavoro occasionale, precario e non garantita oggi dalla contrattazione collettiva e, quindi, non può e non deve avere valori simili a quelli stabiliti dai Contratti Collettivi di Lavoro.
Inoltre la definizione di un salario minimo per legge dovrebbe tenere conto delle differenziazioni esistenti in materia di potere d’acquisto nelle diverse aree geografiche del Paese, questione questa che dovrebbe essere finalmente essere presa in qualche considerazione anche da i CCNL.
Il segretario generale nazionale della Fismic Roberto Di Maulo afferma che come per tutta la legislazione in materia di lavoro, anche il minimum wage, non è uno strumento da cui attendersi miracoli, ma semplicemente una maggiore protezione delle fasce più deboli del mercato del lavoro.
Continua “La recente proposta di Matteo Renzi di fissare il salario minimo legale a 9-10 euro l’ora non incontrerà l’entusiasmo del sindacato che teme di essere delegittimato, ma che non si è mai dato per la verità l’obiettivo di attuare l’articolo 39 della Costituzione che, conferendo rango di legge ai contratti sottoscritti unitariamente dalle parti sociali in rappresentanza della maggioranza degli iscritti, eliminerebbe i contratti anomali e renderebbe oggettivamente inutile il salario minimo legale.
Il sindacato si è affidato alla prassi giurisprudenziale, che per molti anni ha funzionato egregiamente, di equiparare la giusta retribuzione richiamata nell’articolo 36 della Costituzione ai minimi contrattuali nazionali, ma in un regime di sostanziale monopolio della contrattazione, esercitato finora de facto, ma i recenti accordi interconfederali di Confcommercio e Confindustria cercano di trasformare de jure, compiendo una forzatura illegittima rispetto al nostro dettato costituzionale che garantisce la libertà di associazionismo ai cittadini e ai lavoratori.
Il diffondersi di un numero rilevante di contratti, e non tutti “pirata”, indotti dal moltiplicarsi di accordi nazionali di impresa o tra associazioni sindacali di lavoratori e di imprese differenti da quelle storiche, ha prodotto una sorta di concorrenza contrattuale che spinge le aziende a scegliere il contratto più conveniente, laddove per conveniente non si intende la parte retributiva, che non può essere materia di dumping, quanto alla normativa che deve essere maggiormente flessibile e alla definizione di norme maggiormente “tailor made” come oggi richiesto dalla maggiore complessità esistente nel mondo del lavoro che non può essere annullata da norme uguali per tutti che andavano bene nel secolo scorso.
A questo si aggiunge il mondo sommerso del lavoro nero che caratterizza alcuni comparti come il lavoro stagionale agricolo e l’edilizia, per cui il salario minimo può essere utile, soprattutto nella fase ispettiva, che deve essere potenziata dallo Stato e, soprattutto, in caso di ricorso giuridico.
Inoltre il contratto a settore in Italia, continua a svolgere un doppio ruolo, quasi contraddittorio, perchè è sia garanzia dei minimi retributivi, sia indice di valori retributivi e trattamenti complessivi medi per il settore di riferimento. Le parti sociali dovrebbero scegliere un ruolo da attribuire allo strumento del contratto di settore.
Aggiunge poi Di Maulo “Di fatto la tradizionale formula contrattuale non garantisce oggi dovunque quella giusta retribuzione sancita dalla Carta Costituzionale, coprendo una fascia molto limitata sul totale del mercato del lavoro. Infatti si stima che il complesso dei Contratti Nazionali copra soltanto il 70% del totale della popolazione e lascia completamente privi di tutela soprattutto i lavori occupati nella micro impresa, nel commercio, nell’artigianato, nell’assistenza familiare, ecc. La proposta che il segretario del PD ha rilanciato è un parziale surrogato dell’articolo 39, che (al pari degli articoli 40 e 46) continua a essere considerato dalle parti sociali come materiale radioattivo ma, accompagnata da qualche riflessione darebbe un contributo positivo per la tutela del lavoro più debole.
Innanzitutto il valore indicato da Renzi per la soglia salariale oraria minima nazionale (9-10 euro), che corrisponde più o meno al valore del voucher, sarebbe adeguata per la realtà economicamente forti ma diventerebbe una forzatura non applicabile per le aree più deboli e si trasformerebbe in una sorta di grida di manzoniana memoria. Un valore inferiore sarebbe certamente efficace per la realtà e i settori meno sviluppati ma, salvo alcune eccezioni, non avrebbe grandi utilità nel resto del paese. C’è da sottolineare che andrebbero esclusi dall’adozione di questa misura i lavoratori che operano in settori che applicano un CCNL e che quindi il salario minimo sarebbe esclusivamente il riferimento di base per tutti coloro che operano al di fuori di questa copertura, ovverosia il lavoro occasionale, i cosiddetti marginali e il lavoro nero.
Inoltre i 9-10 euro sono una cifra troppo alta se si confronta il salario minimo garantito esistente negli altri Paesi industrializzati (negli USA si aggira sui 7,25 dollari orari). Da un punto di vista teorico il valore del salario minimo dovrebbe essere articolato in funzione delle retribuzioni di fatto, per regione o per aggregati di Regioni, in considerazione dei diversi livelli del costo della vita esistenti in termini di divario tra le diverse aree geografiche del Paese.”
L’Italia ha certamente bisogno di un salario minimo poiché non ci sono sanzioni precise e codificate che garantiscono l’applicazione dei trattamenti retributivi minimi per evitare la concorrenza al ribasso. Urge, quindi, un intervento sull’attuale assetto della contrattazione collettiva.
Concludendo, Di Maulo afferma che sarebbe meglio iniziare con un valore realistico del salario minimo orario, anche se inferiore ai valori indicati del segretario del PD, per valutarne l’impatto sulla realtà di territori e di settori più concretamente interessati e successivamente, migliorare l’efficacia dello strumento in termini generali. L’unica cosa di cui la prossima legislatura non può e non deve rimanere indifferente, come accaduto in questa, rispetto all’intera legislazione del Lavoro in Italia. Occorre che il lavoro iniziato col Jobs Act sia completato dalla riforma dei sistemi contrattuali, dalla definizione dello stato giuridico delle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori e dalla definizione del salario minimo. Occorre, cioè, che il futuro Parlamento descriva un insieme di leggi sul lavoro che tenga conto del bisogno di lavoro che c’è nel nostro Paese, che sia in grado di attrarre investimenti capaci di produrre occupazione e faccia emergere dal sommerso del lavoro nero quella fetta importante del PIL che oggi non viene conteggiata dalla contabilità nazionale.
Di Maria Elena Marsico