All’Italia serve uno choc. Slancio agli investimenti pubblici e privati.

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All’Italia serve uno choc

Slancio agli investimenti pubblici e privati. Le considerazioni del Segretario Generale Fismic sulla crisi economica.

 

L’economia europea sta risentendo in maniera forte dei contraccolpi che provengono dallo scenario globale che stanno di nuovo modificando il mondo per come lo conoscevamo fino a oggi. La perdurante instabilità provocata dall’assenza di leadership mondiale, successiva alla caduta del muro di Berlino e alla conseguente fine dell’impero sovietico e l’emergere della Repubblica popolare cinese come altra protagonista economica insieme agli USA nella globalizzazione sta provocando enormi contraccolpi negativi sulla crescita di tutti i paesi industrializzati, con conseguenze che non sono dissimili da quelle provocate dalla crisi denominata Lehman Brothers del 2008.

La guerra sui dazi, l’instabilità dei paesi del medio oriente, la crescente aggressività turca, la Brexit e ora le conseguenze ancora non “statisticabili” di quella che sembra essere una epidemia su larga scala (coronavirus) stanno provocando una gelata generale sull’intera economia del globo, già alla presa con le profonde trasformazioni tecnologiche e organizzative in atto.

Siamo in una fase particolarmente delicata in quanto l’intera economia europea rischia di fare la fine del vaso di coccio stretto tra il vaso di acciaio americano e quello cinese.

La situazione è ulteriormente aggrava per l’Europa data l’assenza di campioni europei (aziende con potere di negoziazione elevato per fatturato o tecnologie) in grado di competere sullo scenario globale; solo recentemente abbiamo visto nascere alleanze nel settore della cantieristica, dell’aerospazio, delle banche e nel settore automotive come l’alleanza Fca-Psa.

Il tutto appesantito dalla rivoluzione tecnologica in atto che di per sé richiede tempo affinché questa porti benefici in termini di creazione di ricchezza e di nuovi posti di lavoro. Infatti, quello che succede in questo momento è che dalla digitalizzazione dell’economia e dall’elettrificazione del settore automotive si stanno distruggendo posti di lavoro per solo poi in futuro crearne di nuovi. In questa fase complicata servirebbero interventi da parte della Commissione Europea (che infatti ha varato un piano straordinario di investimenti, denominato European Green Deal a sostegno dell’economia verde, della decarbonizzazione e per una maggiore sostenibilità ambientale), mentre qui in Italia il governo nazionale non sembra pronto a interventi choc che favoriscano la ripresa dell’economia e la crescita dell’occupazione. Il quadro purtroppo è ancora molto pervaso da logiche assistenzialistiche come il reddito di cittadinanza che distruggono risorse anziché crearle. Ci sembra positivo che si marci a tappe forzate per l’Europa verde, ma serve un’industria manifatturiera capace di fornire i prodotti che verranno utilizzati per i servizi e quel ruolo ormai sembra che l’Occidente l’abbia delegato alla Cina o comunque all’Asia.

La recessione che ha colpito l’economia tedesca; il sostanziale ristagno di quella italiana che dura ormai da due anni; il continuo stop and go che blocca Macron ogni qualvolta tenta di procedere a riforme strutturali, come nel caso delle pensioni, produce un rallentamento generale della crescita in Europa. Come se non sia sufficiente la Brexit e la tempesta Ciara che ha bloccato per giorni il Nord Europa, ora arriva anche il coronavirus insieme all’invasione di miliardi di cavallette che sta devastando il Corno d’Africa dove già vivono 13 milioni di persone a fortissimo rischio carenze alimentari e sanitarie e in zone dimenticate dal resto del mondo dove c’è il pericolo che vinca il terrorismo religioso. Sembrerebbe proprio che abbia ragione Greta…

In realtà dal secondo dopoguerra a oggi il mondo moderno ha già conosciuto ciclicamente delle crisi che ogni volta sembravano avvicinarci all’Armageddon, ma poi ci siamo puntualmente ripresi. Negli anni ’60 con la crisi dei missili a Cuba che ci portò vicino alla guerra termonucleare globale. Poi la guerra dello Yom Kippur del 1973 che portò alla prima crisi petrolifera, l’esordio dell’oro nero come arma, una risorsa rara. Alla guerra del Kippur seguì nel 1979 la rivoluzione iraniana che provocò un secondo choc petrolifero al quale gli Usa seppero reagire con una politica monetaria rigorosa che stroncò l’inflazione procurata dall’aumento del greggio.  Si aprì così la strada alla ripresa economica degli anni ’80, un decennio che ha portato con sé una inimitabile ventata di ottimismo, modernità e spensieratezza alla fine del quale, nel 1989 ci fu la caduta del muro di Berlino e la fine del mondo diviso in due blocchi con la conseguente fine di un sistema che aveva comunque garantito la stabilità economica. Nel nuovo millennio sorge la minaccia del fondamentalismo religioso, l’utopia di ricreare una società perfetta secondo i dettami della religione che trova nello stile di vita occidentale un nemico da abbattere, tra i segnali più sconcertanti, l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo internazionale. Il mondo post 11 settembre non appare più lo stesso. Segue inoltre la grande depressione economica del 2008 con il crack della Lehman Brothers e la crisi del sistema finanziario mondiale.

Sostanzialmente una crisi mondiale ogni 10 anni che ha sempre modificato e spesso sconvolto gli equilibri precedenti.

Oggi invece la crisi presenta la forma insidiosa di un’epidemia che rischia di evolvere in pandemia, il coronavirus. I suoi effetti sull’economia reale iniziano a farsi sentire, ma gli sviluppi, al momento in cui scriviamo, sono ancora incerti e di proporzioni enormi dato che gli esperti finanziari hanno stimato che l’impatto del coronavirus sia capace di rallentare il Pil mondiale di 0,3 punti.

Qui preme sottolineare che a seguito di ciascuna delle grandi crisi, il mondo è sempre stato in grado di reagire e di costruire anni di prosperità. Soltanto che, in pura osservanza della teoria evoluzionista di Darwin, alla fine i paesi più pronti e veloci ad adeguarsi sono usciti rafforzati dalle crisi, alterando ogni volta gli equilibri geopolitici esistenti.

Stavolta la crisi si presenta con aspetti inediti e pieni di maggiori incognite, in quanto l’intero Occidente capitalistico, fatto da un miliardo di consumatori ricchi, ha assegnato alla Cina il compito di produrre quasi ogni bene di consumo e la quasi totalità della componentistica (dalla elettronica di consumo alla bulloneria, l’industria cinese è produttore praticamente monopolistico in intere filiere industriali, almeno quelle su vasta scala). Anche sulle innovazioni tecnologiche i cinesi hanno assunto una leadership sempre crescente fino ad assumere il monopolio incontrastato – ad esempio sull’elettrificazione del settore automotive o sulla rete 5G.

Inoltre i cinesi, grazie a un’attenta politica espansionistica in Africa, sono proprietari di tutto il litio del pianeta e degli altri minerali innovativi indispensabili alle fabbriche occidentali per produrre oggetti con minore dispendio energetico. Da Amazon fino ad arrivare alla trafileria del signor Brambilla tutta l’economia mondiale sta rallentando al ritmo imposto dai (pochi) container che giungono dalla Cina.

Alla luce di queste considerazioni e vista l’incertezza sull’effettiva estensione del contagio, le domande da porsi sono le seguenti: quale aspetto avrà il mondo domani? Quali saranno i paesi vincitori e quali usciranno sconfitti? La Cina del dopo epidemia sarà ancora il fornitore monopolista di prodotti industriali e innovativi o qualcun altro prenderà il suo posto? E soprattutto bisognerà che il mondo si chieda se è stato giusto assegnare alla Cina un ruolo sempre più crescente nella divisione internazionale del lavoro?

Purtroppo, in attesa di sciogliere i nodi posti dalle domande, l’unica cosa sicura è che l’Italia è in grave ritardo. Senza alcuna idea di politica industriale, come dimostrato dai casi Ilva, Alitalia, Whirpool, Unicredit, ecc. Inoltre negli ultimi due anni siamo stati capaci solo di sprecare risorse importanti in misure assistenziali come il reddito di cittadinanza, o inutili come quota 100.

Serve una politica di investimenti pubblici e privati che dia uno slancio al paese, a partire dallo sblocco di 120 miliardi già stanziati da anni per infrastrutture tradizionali e innovative che sarebbero da sole capaci di essere volano per una ripresa dello sviluppo e dell’occupazione in grado di dare fiducia soprattutto a famiglie e a giovani.

Esiste invece il forte rischio che la politica non colga la drammaticità della fase economica che stiamo attraversando e che di conseguenza il paese resti tagliato fuori dal nuovo assetto geopolitico se non si è capaci di reagire velocemente.

 

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