In tutto questo calderone di decreti e notizie, sorge spontanea una domanda, come sta l’economia del nostro Paese? Mettendo a destra, o a sinistra il dl dignità, e quindi un po’ da parte, ma non troppo, il 2018 secondo il ministro Tria vedrà un ribasso del Pil. La crescita si attesterà infatti all’1,2 e nel 2019, invece, calerà ulteriormente fino all’1%. La colpa potrebbe essere delle incertezze politiche che hanno fatto da sfondo alla primavera sul Colle e che hanno fatto sì che aumentassero gli spread Btp/Bund, (i differenziali di rendimento tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi) che sul debito pubblico italiano gravano e non di poco, arrecando allo Stato difficoltà a finanziarsi a condizioni convenienti sul mercato e aumentando il pagamento degli interessi sul suo debito. Sul fronte degli incentivi, il grande waltzer politico di marzo, non è stato d’aiuto all’economia italiana e quindi agli investimenti delle aziende che a causa del punto di domanda sul prolungamento delle agevolazione fiscali per l’acquisto di impianti e macchinari, hanno dovuto ridurre le spese, nonostante la ripresa dell’occupazione.
“Nel biennio 2018-2019 la riduzione della previsione di crescita è di oltre mezzo punto del Pil. Secondo i criteri macroeconomici correnti è possibile valorizzare tale previsione in riduzione dell’occupazione. Si stimano circa 330mila posti di lavoro in meno di quelli attesi che non verranno creati. E’ come se sparissero posti di lavoro equivalenti al numero degli abitanti del Molise. Un vero disastro, altro che governo del cambiamento” dichiara il segretario generale del sindacato dei metalmeccanici Fismic Confsal.
Un quadro politico incerto che continua a cavalcare l’onda del dubbio, situazione quasi tangibile nel primo decreto di questo neo governo. E la verità dietro al decreto Dignità, gioca a nascondersi tra falsi dati e giustificazioni, o sarebbe meglio chiamarle “causali”. Le false verità cominciano dietro al numero stimato dall’Istat, della possibilità che vadano persi 8000 posti di lavoro all’anno a causa del Decreto. Perché questo è un numero che riguarda soltanto i contratti che non potranno superare i 24 mesi. E tutti gli altri? La gran parte? La verità è che l’83,3% dei contratti a termine non supera i dodici mesi, e parliamo di ben 1.850.000 rapporti di lavoro. Inoltre, 463.000 contratti hanno una durata di meno di tre mesi e in media vengono rinnovati una volta nei dodici mesi. E per tornare a qualche rigo prima di questo, i contratti possono essere rinnovati previa giustificazione, “causale”, abolita dal Jobs Act, e che non vede entusiasta il mondo del lavoro poiché si ricorda che non è sempre possibile giustificare, seguendo dei rigidi parametri, l’assunzione di un dipendente a tempo determinato. Il rischio quindi è che il contratto non venga rinnovato, assumendo un nuovo lavoratore o ricorrendo al lavoro nero, anche perché altro bastone tra le ruote di questo Decreto (dov’è la) Dignità ai contratti a tempo indeterminato, è l’elevato aumento dei costi delle aziende senza incentivi alle assunzioni. E inoltre se non vi è alcun incentivo alla trasformazione in contratti a tempo indeterminato, ad aumentare sono anche i vincoli che devono essere rispettati dalle agenzie interinali, queste dovrebbero infatti rispettare le regole dei contratti a tempo determinato in opposizione al compito svolto dalle agenzie, rischiando una paralisi delle somministrazioni a termine. A rischio quindi anche la somministrazione. Il segretario generale nazionale della Fismic Confsal Roberto Di Maulo afferma che “il minore ricorso a contratti temporanei, ma regolari come il tempo determinato e la somministrazione, costringerà chi cerca occupazione a ricorrere a forme di elusione contrattuale come le false partite Iva e il parasubordinato”. Il rischio di far cadere il mercato del lavoro italiano nel baratro è quindi alto.
Non saranno quindi “gli esigui” 8000 contratti annui a non essere rinnovati, ma potrebbero essere a rischio ben 1.850.000, facendo sì che si crei un ping pong tra le aziende per quei lavoratori che vedranno i loro contratti mai abbastanza lunghi da consentire che si creino le condizioni per un’assunzione definitiva. E dato che i rinnovi sono stati portati da 5 a 4, il tempo di espulsione dal mercato sarà molto ravvicinato.
“Questo avverrà – spiega Di Maulo – perché nel passato sulle causali si era sviluppato un altissimo contenzioso giudiziale che ha visto la vittoria dei ricorrenti con una percentuale superiore al 90 percento. Questo passato costituisce un deterrente importante e produrrà solo ricchezza per gli avvocati del lavoro”.
La stretta sui contratti a termine, non tiene in considerazione i dati degli ultimi anni, infatti nel decreto ci sono misure eccessive rispetto all’obiettivo. E le correzioni che vengono apportate dovrebbero garantire una crescita sostenibile e inclusiva dell’Italia, favorendo la competitività delle imprese e la valorizzazione del lavoro. E mentre il mercato del lavoro chiede flessibilità, questo decreto chiude le porte a questa, non creando alternative che rispondono alle reali esigenze del mondo del lavoro.
Inoltre, le misure del decreto renderanno più incerto e imprevedibile il quadro di regole in cui operano le imprese, disincentivandole e limitandone la crescita.
E se da un lato la crescita lavorativa del Paese si fa sempre più insicura, dall’altro il team del ministro Di Maio è convinto che le imprese stabilizzeranno le assunzioni, cosa pressoché impossibile visto che su basi di carta e traballanti non è possibile costruire nulla, né tantomeno impegnarsi in assunzioni stabili.
E sono questi numeri a mostrare la vera identità del decreto. Come quelli che la Ragioneria di stato e l’Inps hanno reso pubblici: e cioè la possibilità da qui a 2028 di una potenziale perdita di almeno 83.300 posti di lavoro, facendo diminuire di 527,7 milioni di euro le entrate contributive e fiscali. Perché proprio nell’era degli anti-casta bisogna invertire la tendenza e andare contro il dilagante populismo giallo-verde, abbracciando le idee degli appartenenti a quell’élite che parlano di numeri. Perché proprio con i numeri si può dignitosamente (lungi quest’avverbio dall’essere parente del decreto) controbattere. Perché i dati non si fanno intimidire da parole e tesi complottiste. E per continuare a preservare quel minimo di dignità, davanti ai numeri, vengono delegittimate le fonti credibili dei numeri di un paese. Sottotitolo “meglio non fidarsi”.
La casta esiste dunque quando qualsiasi parere non in sintonia diventa un parere dell’élite, diventando in questo modo nemica del popolo, e in questa casta si potrebbe includere Tito Boeri che ha il coraggio di dare la stoccata finale parando il populismo e rispondendo con i numeri. Proprio lui che è stato accusato di fare politica e invitato a dimettersi.
La Fismic Confsal abbraccia il pensiero del Presidente Inps e dimostra preoccupazione per un governo che metterebbe a rischio 400mila posti di lavoro.
Un altro tema che affronta il sindacato è quello dell’agricoltura, la quale non ha bisogno di dazi, ma di mercati aperti sui quali affermare l’eccellenza dei made in Italy nel mondo. “Per cui ci sembra sbagliata la dichiarata volontà di non ratificare il Ceta che ha prodotto finora un importante surplus sulla bilancia commerciale, mentre invece l’esempio positivo è l’accorso commerciale con il Giappone stipulato dall’Europa” dichiara il leader Fismic Confsal.
C’è un’assenza poi nel decreto di un’approfondita attività istruttoria, e questo emerge dalla scarsa attenzione data alle conseguenze amministrative e finanziarie, oltre che all’impatto economico e sociale del provvedimento.
Un decreto, questo, che sicuramente mette paletti di rigidità nel mondo del lavoro, delle aziende, dei lavoratori. Un decreto presentato dal governo che non aiuta le imprese e di conseguenza lo sviluppo di una buona occupazione. “Di certo non è una manovra che guarda al futuro, semmai un tuffo nel passato e di certo non in positivo” afferma Di Maulo. “Al di là delle intenzioni condivisibili, il decreto ha creato dei blocchi a dei potenziali contratti che sarebbero dovuti partire ora, irrigidendo il sistema e arrecando danni anche ai contratti che sarebbero dovuti partire in futuro” conclude.
Articolo su Italia Oggi del 24 luglio 2018
Vedi il pdf