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Roberto Di Maulo segretario generale Fismic Confsal

Paese diviso su produzione o protezione

Il segretario generale Fismic commenta le recenti tornate elettorali

Le recenti tornate elettorali dell’Abruzzo e del Molise, che hanno coinvolto milioni di cittadini, sono un ottimo test per capire le tendenze degli italiani. Analizziamo non tanto le tendenze politiche, non spetta certamente a un sindacato autonomo entrare in un campo che sicuramente non gli compete, quanto quelle economiche.

A nove mesi dalla formazione del governo a guida M5S e Lega, dopo che sono stati varati importanti provvedimenti che riguardano la vita di noi tutti (cosiddetto decreto dignità, condoni fiscali, decreto per la ricostruzione del ponte di Genova e per il terremoto di Ischia, legge di “stabilità” finanziaria 2019-2021, ecotassa sull’acquisto di autoveicoli che penalizza fortemente l’industria nazionale e il decretone su cosiddetto reddito di cittadinanza e quota 100) i cittadini italiani, andati alle urne, ci forniscono un quadro abbastanza chiaro e delineato del momento. Un periodo che è anche e soprattutto contrassegnato dall’entrata ufficiale in recessione del Paese (ondata negativa che ci sembra stia proseguendo anche nei primi due mesi del 2019), dallo spread con i bund tedeschi che continua a mantenersi su tassi difficilmente sopportabili per un’economia sana (intorno ai 270 punti base che significa un forte aggravio per il debito pubblico), da un andamento molto negativo della produzione industriale (meno 7,3% a dicembre 2018) e dagli ordini che in taluni comparti vedono una discesa ben oltre le due cifre.

Chiaramente in questa situazione l’occupazione sta diminuendo drasticamente (meno 2milioni le ore lavorate nella seconda metà del 2018) con una perdita consistente sia dei contratti a tempo determinato che indeterminato, causata sia che dalla congiuntura negativa che dall’applicazione del decreto dignità. Decreto che restringe in modo significativo gli spazi di flessibilità al momento della trasformazione dei contratti a tempo sia per l’introduzione delle causali che per la riduzione del numero di contratti a tempo determinato sottoscrivibili.

In questo quadro, dovrebbe aver colpito tutti uno degli slogan principali che sono stati lanciati dagli allevatori sardi durante la loro clamorosa protesta: “Vogliamo lavoro e non assistenza”, dimostrando in modo inequivoco che esistono due “Italia” che si sono confrontate in questi giorni e che hanno visto il soccombere di una nelle urne in modo vistoso: l’Italia della produzione e quella della protezione.

L’Italia della produzione: quella che richiede che ci sia una svolta a favore dello sviluppo, della costruzione di quelle infrastrutture digitali e tradizionali che sono indispensabili per metterci al passo con il resto d’Europa, di quei tagli strutturali al cuneo fiscale che possano permettere veramente occupazione stabile. Tutti quei provvedimenti che sono stati finora ignorati o addirittura contrastati dal governo in carica (come nel caso della Tav). Governo finora troppo occupato in iniziative elettoralistiche a basso costo, come il contrato ai migranti oppure in operazioni assistenziali come il cosiddetto reddito di cittadinanza o, in operazioni che mettono in difficoltà il nostro sistema previdenziale come la cosiddetta quota 100 che mette a repentaglio la possibilità per le giovani generazioni di avere una pensione nel futuro.

L’altra invece è l’Italia della protezione: quella che chi per consapevolezza e chi non, condanna il paese all’assistenzialismo. Non servirà più investire per favorire l’impresa. Non servirà più investire in istruzione, formazione, alternanza scuola lavoro. Perché? Perché c’è il reddito di cittadinanza. Un problema di ordine culturale quello dell’assistenzialismo, una vera e propria malattia. Rendere una fetta di popolazione dipendente o, nel caso dei furbetti, parassita degli aiuti e incapace di essere un valore aggiunto per la comunità non è una soluzione per un futuro roseo né tantomeno di un presente che mira allo sviluppo. Assistenzialismo e incompetenza sono un mix dannoso. Forse dovremmo pensare a un altro tipo di welfare, quello dove le capacità e le competenze diventano motore di sviluppo economico. Certo è che le difficolta economiche del paese non sono di facile risoluzione, ma dare un assegno non è ciò che rende una persona attiva.

Nelle consultazioni elettorali finora svolte in Abbruzzo e in Sardegna, l’elettorato ha scelto con estrema chiarezza di prediligere quelle parti politiche che hanno a cuore la produzione e non la protezione. Questo dovrebbe aprire una riflessione profonda che però non appare ancora all’orizzonte e che coinvolge in modo profondo le radici stesse della società italiana.

Per uscire dalla metafora parlando di cose concrete, sul tema dell’assistenza pensiamo all’annosa questione posta più volte dalle organizzazioni sindacali riguardo la necessità di separare la gestione dell’assistenza dalla previdenza, nell’Inps. Tale questione non è stata mai affrontata realmente anche se lo stesso ex presidente Inps Tito Boeri ha posto al centro di importanti denunce proprio il fatto che l’Istituto avrebbe dovuto sopportare dei pesi di gestione per le innumerevoli forme di assistenza, rispetto alla sua mission originaria che era quella di garantire la pensione ai cittadini che avevano versato contributi nel corso della propria vita lavorativa.

Oggi la decisione del governo di poggiare tutta la parte burocratica e finanziaria del reddito di cittadinanza all’Inps rischia di allargare ulteriormente la distrazione dell’istituto dai suoi compiti previdenziali. Il panorama “previdenziale” italiano (dati 2016 illustrati dal prof. Alberto Brambilla, presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali) registra 185 miliardi di versamenti contributivi, 157 miliardi di prestazioni pensionistiche e quindi un potenziale saldo attivo di 28 miliardi.

Peccato però che l’Inps, oltre alle suddette prestazioni, corrisponde a vario titolo prestazioni di carattere/natura chiaramente “assistenzialistica” (assegni sociali agli invalidi civili, pensioni sociali, pensioni integrate al minimo, etc.) di importo pari a 120 miliardi di erogazioni annue. E questo porta l’Istituto a un passivo di oltre 90 miliardi l’anno, dati 2016, cioè a dire prima dell’introduzione del Rei (che ha ulteriormente appesantito la parte assistenziale a carico dell’Istituto) e ben prima del “reddito di cittadinanza” che pesano complessivamente oltre 10 miliardi aggiuntivi il bilancio finanziario dell’Inps.

Se invece andiamo oltre il semplice bilancio finanziario e osserviamo i compiti che il c.d. decretone assegna all’Inps e, aggiungiamo a questo il fatto che il successore di Boeri sia proprio Tridico ovverosia il padre del c.d. reddito di cittadinanza, l’urgenza di separare la parte previdenziale da quella assistenziale si rende ancora più urgente anche in considerazione dello stato non certo brillante della finanza pubblica.

Tra le altre considerazioni da svolgere è che mentre l’impianto del Rei era relativamente semplice, individuando con precisione le competenze dell’Inps e quelle delle regioni, l’impianto del c.d. reddito di cittadinanza è molto più labile e lascia spazio di contenziosi tra diverse strutture dello Stato (dubbi di costituzionalità rispetto alla lettera del 117 della Costituzione), mentre lascia alla sola Inps le attività di selezione e approvazione delle domande ed erogazione delle sanzioni.

Data l’esiguità del personale dell’istituto e l’assenza, ad oggi, di una piattaforma dedicata, è quindi probabile che venga lasciata alla sola compilazione del mod. ISEE la selezione delle domande. Notoriamente, secondo statistiche fatte nel passato dalla GdF, i modelli ISEE hanno un margine di infedeltà superiore al 50% e l’impossibilità di procedere a controlli realistici amplia a dismisura la possibilità per gli innumerevoli furbetti di aggirare i vincoli e di ricevere un assegno a cui non hanno diritto. Questione questa che viene ulteriormente certificata dalla implicita dichiarazione fatta dall’Inps in fase di audizione parlamentare laddove viene denunciata la scarsa possibilità di individuare i furbetti e di procedere, come previsto sulla carta, alle sanzioni.

La questione della necessità inderogabile di separare l’assistenza dalla previdenza, di introdurre una banca dati dei diversi sistemi di assistenza si rende quindi ancora più necessaria insieme a un chiarimento sul ruolo e la missione dell’Inps. Ruolo che andrebbe riportato alla sua funzione originaria di erogatore della sola previdenza pubblica. Si tratterebbe di ricondurre allo stesso Ministero del Lavoro tutte le attività di assistenza fornendo una semplificazione del sistema pubblico molto significativa.

Una riforma di questo genere permetterebbe inoltre di avere maggiore efficacia non solo nel sistema previdenziale, ma anche e soprattutto su quello assistenziale, garantendo un più rigoroso rispetto delle norme che oggi sono facilmente aggirabili dato l’esiguità della possibilità di effettuare controlli.

Oltre ai falsi invalidi, ai falsi ciechi e a tutta quella serie infinita di “falsi qualcosa” che ricevono indennità dallo Stato si aggiungeranno anche infinite schiere di falsi disoccupati e falsi poveri, veri evasori fiscali che riceveranno il reddito di “nullafacenza”.

Articolo pubblicato su ItaliaOggi del 05-03-2019

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